giovedì 16 aprile 2015

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Via Aristosseno Taranto






Aristosseno


Aristosseno fu l’ultimo grande rappresentante della scuola pitagorica tarantina, che aveva avuto ai suoi vertici Filolao, Archita, Liside. Filolao fu il primo uomo al mondo ad ipotizzare che il giorno e la notte non erano determinati dal movimento del sole ma dalla rotazione della terra, Archita il primo che sia riuscito a far volare un oggetto meccanico, la famosa colomba di Archita. L’autorità di Liside era tale che si diceva che fosse il vero autore dei tre libri attribuiti a Pitagora.
Aristosseno nacque a Taranto da Spintaros, altrimenti detto Mnesias, intorno al 365 avanti Cristo. Il soprannome Mnesias (dalla grande memoria) ne indica la affiliazione pitagorica, Mnesarcos era chiamato sia il padre che il figlio di Pitagora, Mnesagoras era detto anche il padre di Archita. Era costume dei tarantini magnogreci aggiungere un soprannome a quello di nascita. Quel Filonide che ubriaco urinò sulle toghe degli ambasciatori romani, venuti a chiedere conto dell’affondamento delle loro navi, era chiamato Bicchiere; un giovanotto di avvenente bellezza quanto di facili costumi era detto Taide (la puttana); Nicone, quello che animò la rivolta antiromana durante la guerra Annibalica, e che sconfisse la flotta romana nelle acque antistanti Taranto, era detto il Falco.
Più nobile certo il soprannome Mnesias, che esprimeva l’ammirazione per la memoria prodigiosa dei discepoli di Pitagora, allenati secondo i precetti del maestro ad esercitare la mente ogni giorno, ricordando al mattino o alla sera in ordine cronologico tutto quello che si era fatto, udito e detto. Di Pitagora si diceva addirittura che ricordasse gli avvenimenti delle precedenti vite, credevano infatti nella metempsicosi.
Dal padre, musico famoso oltre che filosofo, Aristosseno fu introdotto nella élite culturale che ruotava intorno ad Archita, il grande filosofo che governava la città, nominato sette volte stratega e mai vinto in battaglia. Politica, musica, arte e filosofia erano un tutt’uno alla corte di Archita, soprattutto la musica doveva servire a formare cittadini rispettosi delle leggi, temperanti nei costumi, determinati in battaglia. La musica per i Pitagorici non serviva al diletto, ma alla formazione dell’anima: musica ordinata, dunque, secondo precisi canoni, utile alle celebrazioni religiose, all’ordinato procedere in battaglia, agli esercizi ginnici, ad accompagnare il simposio perché la mente non fosse annebbiata dal vino.
Si deve probabilmente ad Archita la decisione di Aristosseno adolescente di recarsi in Arcadia, a Mantinea, per studiare la musica tradizionale delle genti doriche. I costumi dei giovani si andavano corrompendo: un nuovo tipo di musica, pericolosa per lo Stato, si andava diffondendo, la musica nuova che preferiva l’aulòs - una sorta di clarinetto a una o due canne dalla infinite possibilità di modulazione - al tetracordo, la cetra a quattro corde, dove i suoni e i ritmi erano impostati con rigore matematico. Una musica che addirittura aveva per scopo dare piacere nei teatri, senza intenti educativi, che mescolava il canto solistico dei metri epici ai canti corali della tragedia. Andasse a vedere il giovane Aristosseno come si comportavano i puristi in Arcadia. Gente di montagna, primitivi abitanti di un paese gelido ed aspro, che solo attraverso la musica riuscivano a mantenersi nel consorzio umano.
Quando Aristosseo, già istruito nelle matematiche e nella filosofia, arrivò in Arcadia, trovò che i Mantineesi, allarmati dalle novità della musica nuova, avevano chiamato Prassitele, il più grande degli scultori viventi, e forse il più grande in assoluto, perché scolpisse nel marmo le loro preferenze musicali, ad ammonimento dei giovani e degli stranieri. E Prassitele si era messo al lavoro scolpendo un bassorilievo che è stato ritrovato nel 1887, utilizzato capovolto per pavimentare una chiesa bizantina, dove raffigurava l’agone musicale tra Apollo e il satiro Marsia.
Apollo che ha finito di suonare, sicuro della vittoria, siede tranquillo posando la cetra sulle gambe, Marsia invece, con i muscoli contratti sino allo spasimo, è intento a soffiare nell’aulòs, senza accorgersi dello schiavo scita che al centro della scena attende con il coltello in mano per scuoiarlo.
Come ci narra Polibio (IV 21,6) la vicina città di Cineta, che aveva abbandonato lo studio della musica, era ripiombata in una esistenza ferina, gli abitanti si erano dilaniati tra loro, e la città era stata distrutta dal nemico. Quella scultura marmorea stava ad indicare la contrapposizione tra Apollo e Dionisos, tra l’ordinato canto della poesia epica accompagnato dalla cetra e l’impazzimento del coro bacchico al suono dell’aulòs, tra l’ordinato governo aristocratico e la degenerazione della democrazia.
A Mantinea lo studio della musica, della danza e del canto erano obbligatori dai dieci ai trenta anni. Fanciulli e giovani si esibivano in pubblico davanti agli anziani per mostrare i progressi fatti nello studio: da soli o in gruppo per fasce di età, maschi e femmine si cimentavano nei canti di celebrazione degli dei e degli eroi della città, oppure in danze ginniche imitanti l’incedere in battaglia e il procedere nelle processioni religiose.
Ma l’aulòs, escluso dalla educazione dei giovani e dalle celebrazioni civili, si prendeva la rivincita sui campi di battaglia, era al suono di quello strumento inebriante secondo cui si muovevano le falangi: grazie al suo potere spersonalizzante le schiere potevano avanzare compatte, come in una danza onirica, come un solo grande corpo e una sola volontà. Un esempio di danza guerresca scandita dall’aulòs ce la dà Senofonte nel narrare l’esibizione dei soldati di Mantinea davanti agli ambasciatori dei Paflagoni (An.VI,1,2).
Lo stesso Aristosseno non disdegnò l’uso dell’aulòs con cui guarì un uomo di Tebe impazzito al suono orrendo delle trombe di guerra. Il fatto che quell’uomo gli si fosse presentato dopo aver consultato un oracolo ci rivela quanto Aristosseno fosse noto anche per gli studi sulle proprietà medicamentose della musica nelle malattie mentali.
Del giovanile soggiorno a Mantinea ci rimangono i titoli di due opere perdute: Elogio dei Mantineesi e Costumi di Mantinea.
Dopo Mantinea Aristosseno andò a Corinto, probabilmente si fermò anche a Tebe dove poteva contare su Epaminonda, amico del padre, poi si stabilì ad Atene; all’interno di questi spostamenti non siamo in grado di ricostruire i ritorni in patria e i periodi di permanenza a Taranto. Ad Atene ebbe modo di completare i suoi studi sul Pitagorismo approfittando della presenza del vecchio Senofilo, ultimo grande rappresentante della diaspora dei pitagorici crotoniati, che in gioventù aveva avuto modo di studiare proprio a Taranto alla scuola di Eurito e Filolao. Ad Atene incontrò Aristotele e ne divenne discepolo e coadiutore per lunghi anni, dalla fondazione del Liceo alla morte del maestro; furono tredici anni di permanenza, dal 335 al 322, a fianco delle più raffinate menti dell’antichità. Qui potè completare i suoi studi di musica, raffinare il pitagorismo alla luce della razionalità aristotelica, studiare la fisica e le scienze naturali, scrivere, insegnare teoria musicale. Alla morte del maestro credette di succedergli alla guida del Liceo, ma Aristotele gli preferì Teofrasto ed Aristosseno ne fu profondamente amareggiato: alcuni dicono che abbia inveito davanti al suo letto di morte, ma è una malevola diceria, perché nei sui scritti elogia il maestro e i suoi metodi di ricerca ed insegnamento. Particolarmente aspro si dimostra invece nei riguardi di Platone, un filosofo da nulla che avrebbe semplicemente assemblato le teorie di Eraclito, Pitagora e Socrate, un volgare plagiario, che aveva contrabbandato come proprie opere di Pitagora e di Protagora. E’ possibile che su questo giudizio così negativo abbiano avuto influenza gli ambienti culturali tarantini, dove si ricordava il viaggio di Platone a Taranto per incontrare Archita e i suoi due infelici tentativi di introdurre a Siracusa un governo filosofico, finiti in misero modo, con la riduzione in schiavitù la prima volta, e fu salvato grazie al denaro di Anniceride di Cirene; con la prigionia la seconda volta, e fu salvato dall’autorità di Archita che mandò una nave con ambasciatori per liberarlo.
Dopo il 322, anno della morte di Aristotele e dell’allontanamento dalla sua scuola, si perdono le tracce di Aristosseno, non sappiamo dove sia andato e quando sia morto. Il silenzio delle fonti antiche farebbe pensare a un ritorno a Taranto e a una morte precoce, ma la sua estesa produzione letteraria non si concilia con una vita breve. Secondo la Suda, che è un catalogo antico delle persone illustri, scrisse ben 453 libri. Oltre ai trattati di teoria musicale che lo resero famoso, compose opere di storia e di critica letteraria, biografie di uomini famosi, tra questi Archita, Pitagora e Platone, altre opere delle quali non conserviamo nemmeno i titoli. Fortunatamente si è conservato quasi integro un trattato di teoria musicale, gli Elementi di Armonica, utilizzato per le lezioni che teneva al Liceo ad Atene, e i frammenti di un’altra opera sulla ritmica.
Da una citazione di Ateneo, probabilmente spuria, si dedurrebbe che Aristosseno quasi centenario fosse ancora in vita dopo il 273 avanti Cristo, anno di deduzione della colonia latina a Poseidonia. Secondo la citazione di Ateneo, Aristosseno in un suo scritto si sarebbe paragonato agli abitanti di Poseidonia assoggettati ai Romani, che una volta l’anno si riunivano per parlare in greco e rimpiangere la perduta libertà e gli antichi costumi: “Così anche noi, dopo che i teatri si sono imbarbariti e questa nuova musica è caduta in grande corruzione, rimasti in pochi ricordiamo quale fosse la vera musica”.
Aristosseno è poco conosciuto perché i suoi testi sono di difficilissima lettura, e pochi si sono cimentati a tradurli e commentarli. Solo nel 1954, per i tipi del Poligrafico dello Stato, è stata pubblicata, ad opera di Rosetta Da Rios, un’edizione degli Elementi di Armonica con traduzione italiana a fianco, pubblicazione che ha anche il pregio di contenere una raccolta delle citazioni antiche su Aristosseno e un’appendice sul valore della sua opera musicale. A questa pubblicazione della Da Rios rimandiamo chi volesse conoscere la sua opera musicale; qui basti dire che Aristosseno fu il primo a cercare di dare una sistemazione ordinata e precisa alle dottrine musicali del suo tempo; grazie alla sua opera la musica antica finì di essere una meccanica applicazione di rigide regole matematiche per divenire arte che richiedeva sensibilità, memoria ed intelletto; come dice Rosetta De Rios, il suo sistema basato su tredici tonalità non trovò applicazione presso gli antichi: se così fosse stato, la musica tonale, di cui è essenzialmente formata la musica moderna, sarebbe stata adoperata anche nell’antichità.

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