Aristosseno
Aristosseno fu l’ultimo grande rappresentante
della scuola pitagorica tarantina, che aveva avuto ai suoi vertici
Filolao, Archita, Liside. Filolao fu il primo uomo al mondo ad
ipotizzare che il giorno e la notte non erano determinati dal movimento
del sole ma dalla rotazione della terra, Archita il primo che sia
riuscito a far volare un oggetto meccanico, la famosa colomba di
Archita. L’autorità di Liside era tale che si diceva che fosse il
vero autore dei tre libri attribuiti a Pitagora.
Aristosseno nacque a Taranto da Spintaros,
altrimenti detto Mnesias, intorno al 365 avanti Cristo. Il soprannome
Mnesias (dalla grande memoria) ne indica la affiliazione pitagorica,
Mnesarcos era chiamato sia il padre che il figlio di Pitagora,
Mnesagoras era detto anche il padre di Archita. Era costume dei
tarantini magnogreci aggiungere un soprannome a quello di nascita. Quel
Filonide che ubriaco urinò sulle toghe degli ambasciatori romani, venuti
a chiedere conto dell’affondamento delle loro navi, era chiamato
Bicchiere; un giovanotto di avvenente bellezza quanto di facili costumi
era detto Taide (la puttana); Nicone, quello che animò la rivolta
antiromana durante la guerra Annibalica, e che sconfisse la flotta
romana nelle acque antistanti Taranto, era detto il Falco.
Più nobile certo il soprannome Mnesias, che
esprimeva l’ammirazione per la memoria prodigiosa dei discepoli di
Pitagora, allenati secondo i precetti del maestro ad esercitare la mente
ogni giorno, ricordando al mattino o alla sera in ordine cronologico
tutto quello che si era fatto, udito e detto. Di Pitagora si diceva
addirittura che ricordasse gli avvenimenti delle precedenti vite,
credevano infatti nella metempsicosi.
Dal padre, musico famoso oltre che filosofo,
Aristosseno fu introdotto nella élite culturale che ruotava intorno ad
Archita, il grande filosofo che governava la città, nominato sette volte
stratega e mai vinto in battaglia. Politica, musica, arte e filosofia
erano un tutt’uno alla corte di Archita, soprattutto la musica doveva
servire a formare cittadini rispettosi delle leggi, temperanti nei
costumi, determinati in battaglia. La musica per i Pitagorici non
serviva al diletto, ma alla formazione dell’anima: musica ordinata,
dunque, secondo precisi canoni, utile alle celebrazioni religiose,
all’ordinato procedere in battaglia, agli esercizi ginnici, ad
accompagnare il simposio perché la mente non fosse annebbiata dal vino.
Si deve probabilmente ad Archita la decisione
di Aristosseno adolescente di recarsi in Arcadia, a Mantinea, per
studiare la musica tradizionale delle genti doriche. I costumi dei
giovani si andavano corrompendo: un nuovo tipo di musica, pericolosa per
lo Stato, si andava diffondendo, la musica nuova che preferiva l’aulòs -
una sorta di clarinetto a una o due canne dalla infinite possibilità di
modulazione - al tetracordo, la cetra a quattro corde, dove i suoni e i
ritmi erano impostati con rigore matematico. Una musica che addirittura
aveva per scopo dare piacere nei teatri, senza intenti educativi, che
mescolava il canto solistico dei metri epici ai canti corali della
tragedia. Andasse a vedere il giovane Aristosseno come si comportavano i
puristi in Arcadia. Gente di montagna, primitivi abitanti di un paese
gelido ed aspro, che solo attraverso la musica riuscivano a mantenersi
nel consorzio umano.
Quando Aristosseo, già istruito nelle
matematiche e nella filosofia, arrivò in Arcadia, trovò che i
Mantineesi, allarmati dalle novità della musica nuova, avevano chiamato
Prassitele, il più grande degli scultori viventi, e forse il più grande
in assoluto, perché scolpisse nel marmo le loro preferenze musicali, ad
ammonimento dei giovani e degli stranieri. E Prassitele si era messo
al lavoro scolpendo un bassorilievo che è stato ritrovato nel 1887,
utilizzato capovolto per pavimentare una chiesa bizantina, dove
raffigurava l’agone musicale tra Apollo e il satiro Marsia.
Apollo che ha finito di suonare, sicuro della
vittoria, siede tranquillo posando la cetra sulle gambe, Marsia
invece, con i muscoli contratti sino allo spasimo, è intento a soffiare
nell’aulòs, senza accorgersi dello schiavo scita che al centro della
scena attende con il coltello in mano per scuoiarlo.
Come ci narra Polibio (IV 21,6) la vicina città
di Cineta, che aveva abbandonato lo studio della musica, era ripiombata
in una esistenza ferina, gli abitanti si erano dilaniati tra loro, e la
città era stata distrutta dal nemico. Quella scultura marmorea stava ad
indicare la contrapposizione tra Apollo e Dionisos, tra l’ordinato
canto della poesia epica accompagnato dalla cetra e l’impazzimento del
coro bacchico al suono dell’aulòs, tra l’ordinato governo aristocratico e
la degenerazione della democrazia.
A Mantinea lo studio della musica, della danza
e del canto erano obbligatori dai dieci ai trenta anni. Fanciulli e
giovani si esibivano in pubblico davanti agli anziani per mostrare i
progressi fatti nello studio: da soli o in gruppo per fasce di età,
maschi e femmine si cimentavano nei canti di celebrazione degli dei e
degli eroi della città, oppure in danze ginniche imitanti l’incedere in
battaglia e il procedere nelle processioni religiose.
Ma l’aulòs, escluso dalla educazione dei
giovani e dalle celebrazioni civili, si prendeva la rivincita sui campi
di battaglia, era al suono di quello strumento inebriante secondo cui
si muovevano le falangi: grazie al suo potere spersonalizzante le
schiere potevano avanzare compatte, come in una danza onirica, come un
solo grande corpo e una sola volontà. Un esempio di danza guerresca
scandita dall’aulòs ce la dà Senofonte nel narrare l’esibizione dei
soldati di Mantinea davanti agli ambasciatori dei Paflagoni (An.VI,1,2).
Lo stesso Aristosseno non disdegnò l’uso
dell’aulòs con cui guarì un uomo di Tebe impazzito al suono orrendo
delle trombe di guerra. Il fatto che quell’uomo gli si fosse presentato
dopo aver consultato un oracolo ci rivela quanto Aristosseno fosse noto
anche per gli studi sulle proprietà medicamentose della musica nelle
malattie mentali.
Del giovanile soggiorno a Mantinea ci rimangono i titoli di due opere perdute: Elogio dei Mantineesi e Costumi di Mantinea.
Dopo Mantinea Aristosseno andò a Corinto,
probabilmente si fermò anche a Tebe dove poteva contare su Epaminonda,
amico del padre, poi si stabilì ad Atene; all’interno di questi
spostamenti non siamo in grado di ricostruire i ritorni in patria e i
periodi di permanenza a Taranto. Ad Atene ebbe modo di completare i suoi
studi sul Pitagorismo approfittando della presenza del vecchio
Senofilo, ultimo grande rappresentante della diaspora dei pitagorici
crotoniati, che in gioventù aveva avuto modo di studiare proprio a
Taranto alla scuola di Eurito e Filolao. Ad Atene incontrò Aristotele e
ne divenne discepolo e coadiutore per lunghi anni, dalla fondazione del
Liceo alla morte del maestro; furono tredici anni di permanenza, dal
335 al 322, a fianco delle più raffinate menti dell’antichità. Qui potè
completare i suoi studi di musica, raffinare il pitagorismo alla luce
della razionalità aristotelica, studiare la fisica e le scienze
naturali, scrivere, insegnare teoria musicale. Alla morte del maestro
credette di succedergli alla guida del Liceo, ma Aristotele gli preferì
Teofrasto ed Aristosseno ne fu profondamente amareggiato: alcuni dicono
che abbia inveito davanti al suo letto di morte, ma è una malevola
diceria, perché nei sui scritti elogia il maestro e i suoi metodi di
ricerca ed insegnamento. Particolarmente aspro si dimostra invece nei
riguardi di Platone, un filosofo da nulla che avrebbe semplicemente
assemblato le teorie di Eraclito, Pitagora e Socrate, un volgare
plagiario, che aveva contrabbandato come proprie opere di Pitagora e di
Protagora. E’ possibile che su questo giudizio così negativo abbiano
avuto influenza gli ambienti culturali tarantini, dove si ricordava il
viaggio di Platone a Taranto per incontrare Archita e i suoi due
infelici tentativi di introdurre a Siracusa un governo filosofico,
finiti in misero modo, con la riduzione in schiavitù la prima volta, e
fu salvato grazie al denaro di Anniceride di Cirene; con la prigionia la
seconda volta, e fu salvato dall’autorità di Archita che mandò una nave
con ambasciatori per liberarlo.
Dopo il 322, anno della morte di Aristotele e
dell’allontanamento dalla sua scuola, si perdono le tracce di
Aristosseno, non sappiamo dove sia andato e quando sia morto. Il
silenzio delle fonti antiche farebbe pensare a un ritorno a Taranto e a
una morte precoce, ma la sua estesa produzione letteraria non si
concilia con una vita breve. Secondo la Suda, che è un catalogo antico
delle persone illustri, scrisse ben 453 libri. Oltre ai trattati di
teoria musicale che lo resero famoso, compose opere di storia e di
critica letteraria, biografie di uomini famosi, tra questi Archita,
Pitagora e Platone, altre opere delle quali non conserviamo nemmeno i
titoli. Fortunatamente si è conservato quasi integro un trattato di
teoria musicale, gli Elementi di Armonica, utilizzato per le lezioni
che teneva al Liceo ad Atene, e i frammenti di un’altra opera sulla
ritmica.
Da una citazione di Ateneo, probabilmente
spuria, si dedurrebbe che Aristosseno quasi centenario fosse ancora in
vita dopo il 273 avanti Cristo, anno di deduzione della colonia latina a
Poseidonia. Secondo la citazione di Ateneo, Aristosseno in un suo
scritto si sarebbe paragonato agli abitanti di Poseidonia assoggettati
ai Romani, che una volta l’anno si riunivano per parlare in greco e
rimpiangere la perduta libertà e gli antichi costumi: “Così anche noi,
dopo che i teatri si sono imbarbariti e questa nuova musica è caduta in
grande corruzione, rimasti in pochi ricordiamo quale fosse la vera
musica”.
Aristosseno è poco conosciuto perché i suoi testi
sono di difficilissima lettura, e pochi si sono cimentati a tradurli e
commentarli. Solo nel 1954, per i tipi del Poligrafico dello Stato, è
stata pubblicata, ad opera di Rosetta Da Rios, un’edizione degli
Elementi di Armonica con traduzione italiana a fianco, pubblicazione che
ha anche il pregio di contenere una raccolta delle citazioni antiche su
Aristosseno e un’appendice sul valore della sua opera musicale. A
questa pubblicazione della Da Rios rimandiamo chi volesse conoscere la
sua opera musicale; qui basti dire che Aristosseno fu il primo a
cercare di dare una sistemazione ordinata e precisa alle dottrine
musicali del suo tempo; grazie alla sua opera la musica antica finì di
essere una meccanica applicazione di rigide regole matematiche per
divenire arte che richiedeva sensibilità, memoria ed intelletto; come
dice Rosetta De Rios, il suo sistema basato su tredici tonalità non
trovò applicazione presso gli antichi: se così fosse stato, la musica
tonale, di cui è essenzialmente formata la musica moderna, sarebbe stata
adoperata anche nell’antichità.
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