Se non ci fosse la grande poesia di Virgilio e di Orazio e poi quella di Properzio, Marziale, Stazio; e quella di T.N. d’Aquino con le sue Deliciae e quella più vicina a noi, al nostro tempo, di Pascoli e del suo allievo Gandiglio; poesia che ha celebrato quei famosi culta resi fertili dalle acque del breve fiume, acque rigeneratrici in lucentezza e morbidezza delle lane degli armenti lì, presso il Galeso, portati anche a pascolare; se non ci fossero quei versi di Properzio a Virgilio (Elegie, II,23) che, beato lui, poteva poetare all’ombra degli alti pini che facevano niger quel corso d’acqua; e se non ci tornassero a mente le parole di Orazio (che non sapeva ai suoi tempi se era più lucano o apulo) che quel flumen definì dulce (Odi, II, 6); noi qui non staremmo a parlare di quel Galeso così caro alla poesia latina.
Ma c’è di più. é Virgilio che nelle sue Georgiche (IV, 116-148) parla di quel vecchio coricio, confinato dopo la guerra pompeiana ai pirati (67 a.C.) sulle sponde del piccolo mare presso Taranto e presso il Galeso che, con la pazienza di un lavoro ingrato, ma, al tempo stesso, amato, aveva saputo trasformare un pezzo di terra arido, sabbioso e incolto in un campo fertile di verdure e di frutta e ricco di fiori del cui polline venivano a nutrirsi le api industriose.
E sulle orme della poesia virgiliana il tarantino d’Aquino nel libro II delle sue Deliciae dedicava, come già il poeta di Mantova aveva fatto per il vecchio di Corico, scorrevoli esametri al dio del fiume, appunto Galeso, che al pescatore Antigene dava consigli sull’uso della pesca e sul tempo migliore per determinate catture di pesci.
Virgilio aveva esaltato il lavoro agricolo di un povero pirata divenuto, per forza del destino, contadino; d’Aquino esaltava il lavoro piscatorio di un altro povero vecchio bruciato dal sole e dal mare. Scenario per entrambi il piccolo seno del mare tarantino, e quel breve corso d’acqua che irrorava i flaventia culta di fronte alle grandi torri della fortezza ebalica. E la storia del vecchio di Corico, divenuta leggenda, fu ripresa e dal Pascoli nel suo poemetto Senex Corycius (da chi stende questa premessa tradotto col nome Il vecchio di Taranto) e dal discepolo del poeta romagnolo, l’illustre latinista Adolfo Gandiglio, in altro poe-metto dal nome Prope Galesum (tradotto sempre da chi stende questa premessa per i quader-netti della Biblioteca del Centro Studi d’Italianistica, IV, Taranto 1993).
Presso quel fiume haud inglorius e corrente parvo alveo e Pascoli e Gandiglio immaginavano affettuosi conversari fra Virgilio e il vecchio coricio e fra Orazio, Tuc-ca e Vario e di lontano e di fuggita il solito vecchio contadino che aveva trasformato in un campo fertile ed ameno una antica terra sabbiosa e scogliosa.
Dal tempo di Virgilio in poi il divenne un fiume mitico e, al tempo stesso, per via della purezza delle sue acque che bagnavano, anche se per breve fluire, campi biondi di messi e presso le sue rive erano alberi alti e ombrosi; pinete affascinanti e salubri che potevano ristorare il corpo affaticato di un viaggiatore stanco per una lunga via o rendevano più confortevole il soggiorno di un visitatore di quei luoghi di fronte ai quali si er-geva la non ancora oraziana molle et imbelle Tarentum, ma una città forte delle sue armi e della sua grandezza economica; la città che fu di quell’Archita amico del filosofo Platone.
Poter dire, oggi, ai giovani di domani: questo è il Galeso caro a Virgilio. a Orazio, a d’Aquino, a Pascoli; rinato il fiume al suo antico splendore ecologico che la poesia antica e moderna cantò come l’anima stessa della gens tarentina.
Questo proposito mi auguro non rimanga voce finita.
Sarebbe anche finita una gran parte della civiltà tarantina e perché no? Anche del nostro vivere culturale, etico, sociale; insomma umano.
E il voto tutto nostro che il Galeso torni alla sua gloriosa antica testimonianza culturale è anche l’auspicio che chi regge e reggerà le sorti civili e politiche di Taranto ascolti questa nostra preghiera, che poi è di tutti i tarantini: una preghiera è ormai decennale; ci vergogniamo di come è ridotto quel celebre corso d’acqua, più cantato dell’Arno e del Tevere.
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